Con questa puntata, mixiamo i riflettori puntati sul fotoamatore puro della nostra città e ci inoltriamo anche nel campo paraprofessionale, fino a giungere pian piano all'interno del mondo professionistico in toto. Anche perché qualunque fotografo professionista ha sicuramente iniziato il suo percorso attraversando un sentiero intriso di passione, curiosità ed apprendistato, per cui... il "cambio della guardia" non dovrebbe costituire un brusco passaggio, ma graduale. Oggi mettiamo in luce l'opera di Francesco Patacchiola, uno degli ultimi professionisti appena laureatosi in questa categoria. Una persona dalla profonda umanità che si è servita da sempre della fotocamera per porre nel proprio obiettivo scene che volessero raccontare qualcosa "oltre" lo scatto in se'.
Quando inizi ad appassionarti alla fotografia?
"Da bambino, da molto piccolo. Mi è stata tramandata da mio padre che non perdeva occasione per portare la macchinetta al seguito ovunque: matrimoni, comunioni, feste di compleanno, semplici scampagnate: erano tutt'uno. Gli chiedevo di insegnarmi, di darmi consigli, di farmi apprendere le prime, rudimentali nozioni e da lì non ho più smesso di... imparare. La prima macchinetta, una Ricoh semiautomatica, mi venne regalata da zia Maria Antonietta e fu come aver toccato il cielo con un dito: mi si apriva un mondo, fu un regalo fantastico, il più bello ed intrigante. Non persi tempo a scattare ovunque: panorami, laghi, montagna. Poi, ho messo da parte i primi soldini per passare a qualcosa che mi permettesse di continuare a... camminare in questo mondo con maggior tecnica e, malgrado la mia strada nel settore del lavoro mi allontanasse spesso da questa mia passione, non ho mai smesso di dedicargli tempo ed amore ogni qualvolta ne avessi la possibilità. Purtroppo rimasi senza lavoro ma investii gli ultimi guadagni tutti in una reflex, era una Nikon D5000, la mia prima, vera fotocamera, quella che mi permise di farmi conoscere ed apprezzare da molti, compreso il mio attuale 'datore di lavoro'."
Come intendi una fotografia?
"Mi ispiro molto alla teoria di Henry Cartier-Bresson che voleva si dovesse trovare sempre una storia dentro un unico scatto, le cosiddette "fotografie parlanti". Questo imprinting me lo porto ancora dietro e difficilmente se ne andrà dal mio stile di "comporre" un quadro fotografico. Un tramonto, una strada, uno scorcio di paese senza un'anima, un oggetto, una persona che lo abita imprimendo un senso più profondo e narrativo allo scatto, per me è un elemento indispensabile. Il soggetto, in ogni fotografia, dà forza all'immagine definitiva e contestualizza maggiormente ogni location scelta. E' la foto che amo maggiormente, quando riesco a scattarne una che abbia questi requisiti. Uno scatto per me deve narrare una storia e chi lo osserverà dovrà sentirsi immerso in quella storia, come stesse vivendola."
Quali sono le occasioni che preferisci immortalare?
"Su tutte, senza ombra di dubbio, la nostra Processione di Sant'Antonio. Chi non dovesse conoscere la nostra manifestazione e dovesse imbattersi in qualche mia foto, deve esserne coinvolto quasi fisicamente ed emotivamente; una mia foto deve raccontargli in un attimo perfettamente tutto: l'intensità degli occhi, la rugosità delle mani, i piedi scalzi in terra di quella gente che va in processione devono essere elementi fortemente evocativi, devono trasmettere tutto il sentimento che accompagna questo nostro grande evento religioso. E la fotografia, se vuole, può riuscire a tanto."
Per te sono più stimolanti scatti istantanei, colti al volo o preferisci la narrativa che offre un evento nella sua complessità?"Sicuramente una foto che imprime un momento particolare di vita ha decisamente il suo fascino. Non do mai nulla per scontato o "già visto" e cerco di trovare anche nella banalità di un passaggio quotidiano quel quid di diverso che rende un frangente unico ed irripetibile. E' questa, in fondo per me, l'essenza della fotografia: cogliere l'attimo e fissarlo per sempre. Ci sono scene che vediamo e rivediamo ogni giorno eppure, sarò un irrimediabile romantico, una donna che cammina verso un tramonto, un bambino che getta pane alle oche nel Velino, due persone che si fermano a chiacchierare sul ponte e sullo sfondo l'amico Terminillo che quasi li veglia come un anziano padre, un piccione che vola libero tra i cornicioni di due case, sono immagini che mi riempiono l'animo e quando riesco a fissarle su foto come voglio, come mi piace comporre, mi sento appagato fino in fondo."
Hai bruciato i tempi passando da fotocamere amatoriali ad una superprofessionale D5, il top di gamma della Nikon. Fino a che punto, a tuo avviso, è indispensabile la qualità del mezzo?
"Assolutamente non è indispensabile avere una macchina al top delle prestazioni. Si può arrivare ad uno scatto, il più fantastico anche con un semplice cellulare. Ho dovuto investire su questo modello ultramoderno per una questione di maggior praticità ed affidabilità nel mio lavoro attuale. Ad esempio, difficilmente riesci a realizzare professionalmente servizi di eventi sportivi ad alti livelli senza fotocamere capaci e performanti. Ma chi ama la fotografia pura non ha bisogno di arrivare a tanto, serve l'occhio ed il cuore più che la fredda macchina."
Ogni scarrafone è bello a mamma soja... ma qual è la foto a cui sei più legato?"Forse la foto più bella che ho fatto in vita mia è una di queste quattro che ho scelto per queste pagine. Uno scatto realizzato con la mia primissima fotocamera ad Amatrice, il 5 gennaio scorso, in mezzo alle macerie coperte dalla prima neve ed un gattino al centro della vita in "rappresentanza" di tante vite, tante anime, tante storie di quel posto ormai tremendamente silenzioso ed ovattato ma che gridava con dignità e sgomento tutta la sua rabbia ed il suo dolore. La vita tra la morte, tutto ricoperto da un manto bianco come a soffocare le più recondite richieste d'aiuto. Quella foto ha fatto il giro del mondo e per me è stata una soddisfazione indescrivibile perché ero riuscito a dire tutto in uno scatto, la lezione di Bresson mi era servita a qualcosa!"
Ora hai intrapreso la carriera professionale...
"Sì, come ti stavo dicendo, ho insistito nel far vedere le mie foto ad Emiliano Grillotti per molto tempo fin quando si è convinto ad offrirmi l'opportunità di lavorare con il suo staff a RietiLife. Sono molto stimolato sia da questo impegno che dalla considerazione di Emiliano nei miei confronti. Lui è bravo e capace: mi guida, mi insegna, mi spiega cose che difficilmente imparerei da solo ed in poco tempo. La sua fiducia mi sprona ad impegnarmi sempre di più nel lavoro ma senza mai tradire, quando mi è possibile, quel romanticismo fotografico che in fondo è stata la platea di fondazione di tutta la mia storia per quest'affascinante passione."
C'è ancora spazio a Rieti per chi sogna di fare il tuo mestiere?
"Credo di sì perché, come dicevo, il fotografo deve distinguersi da tutti. Ognuno ha il suo modo di lavorare, di esprimersi; il suo stile deve essere unico e grazie a questo ognuno, capace, può trovare il proprio spazio, specialmente ora che l'online sta prendendo piede a passi da gigante. Mi spiace per il cartaceo classico, che ho sempre amato e rispettato, ma devo ammettere che il web lo sta soppiantando quasi del tutto."
Cos'è per te la "Fotografia"?
"E' il più grande mezzo di espressione. Una foto è per sempre, l'emozione di quell'attimo che tu imprimi in un'istantanea è qualcosa di unico, di meraviglioso. C'è chi riesce a descrivere quel momento con le parole, magari in una poesia e chi, come nel mio caso, affida tutto ad uno scatto per tramandarlo a... futura memoria. La magia di una foto è tutta qui. E non è poco!"
Maurizio Festuccia