Camminando un po’ soprappensiero lungo le antiche strade consuete ai nostri passi, c’imbattiamo a volte in toponimi incapaci di parlare ancora alla mente ed al cuore, logorati come sono dall’usura del tempo o dall’incuria dei cittadini.
Chi scenda lungo la pennina di piazza, ed ancor più chi sale con il respiro conto e il passo lento, s’imbatterà nella targa che indica Largo Alfani: la damnatio memoriæ fu giustamente decretata per i membri di questo potente casato, quando tentò di tramutare in signoria il comune reatino, ma certo con minore legittimità furono distrutte le solide case Alfani quando negli anni ’30 del secolo passato fu decisa la costruzione della massiccia torre civica in travertino, monumento razionalista della nuova dignità raggiunta da Rieti, capoluogo di provincia.
Nel corso del XIV secolo, il capostipite Cecco Alfani aveva esercitato un ruolo politico-amministrativo di prim’ordine aderendo al progetto di restaurazione dell’autorità pontificia perseguito dal cardinale Albornoz al tempo della cattività avignonese. Gregorio XI ricompensò l’atto di obbedienza mantenendo alla città gli antichi privilegi fiscali.
Ma una generazione più tardi i figli di Cecco - Rinaldo, castellano della rocca di Monte Calvo, Giannandrea Abate di Sant’Eleuterio, Ludovico vescovo di Rieti - si trovarono a rivestire ruoli chiave nella vita cittadina, tanto da intraprendere un’autonoma politica tesa a modificare gli assetti istituzionali del libero comune: il 9 febbraio 1397, una congiura pose fine all’ambizioso progetto aggredendo i due ecclesiastici di casa Alfani impegnati in una celebrazione liturgica nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Cittaducale. Il vescovo Ludovico restò ucciso, l’abate Giannandrea fu gravemente ferito. Rinaldo, scampato all’agguato, mise a ferro e fuoco la città prima di asserragliarsi a Monte Calvo, mentre papa Bonifacio IX richiamò da L’Aquila il patrizio reatino Ludovico Cichi Cola de Teodonari (1397-1436) nominandolo vescovo della città natale.La violenta reazione di Rinaldo non bastò a mantenere il potere nelle sue mani: sconfitto dalle milizie cittadine, fu esiliato con gli altri suoi familiari, costretto a rinunciare per sempre al suo ambizioso progetto.
Le case Alfani, che all’inizio della Pennina di San Giovanni circoscrivevano a settentrione la piazza sommitale dell’arce, furono sottoposte a sequestro e destinate ad accogliere le magistrature civili, fino ad allora situate nella duecentesca platea Leonis affinché fosse evidente a ciascuno che il potere era e restava salda espressione della comunità. Questa azione dall’eloquente forza simbolica comportò dunque il riassetto dello spazio urbano, con il rapido abbandono degli edifici pubblici della piazza del Leone a vantaggio dell’area sovrastante fatta segno a nuovi interventi di costruzione.
Il fallimento dell’ambizioso progetto di affermazione politica determinò in breve il riassetto degli spazi urbani, restituendo all’antica arce sabino-romana il ruolo egemone a cui aveva rinunciato al tempo dell’allargo di metà Duecento, quando i palazzi del potere erano stati edificati ai margini della piazza del Leone. In tempi recentissimi, l’area retrostante al palazzo del Comune - unica traccia del passaggio degli Alfani nella storia reatina - si è ridotta ad uno scomodo parcheggio.
Per quanto possa essere dura la condanna meritata da questi protagonisti orgogliosi del nostro passato civico, riscattiamone almeno la memoria storica: in fondo, la loro idea di città corrispose allo spirito di un’epoca che proprio nell’organizzazione signorile seppe promuovere la cultura del rinascimento.